Chi nel 2006 non alzava il volume della radio in macchina per ascoltare meglio “ They tried to make me go to Rehab but I said no, no, no”? Immaginando, poi, che quel timbro fosse di una donna di origini Afro con una folta chioma di ricci alla Nina Simone, dagli occhi scuri e profondi e movenze proprie del mondo soul? E invece no, l’anima e il corpo di quella voce erano di una certa Amy, cantautrice british che più british non si può, dagli occhi verdi e capelli neri corvino che prenderanno, col passare degli anni, un’insolita forma iconica. Avevo 10 anni quando mi regalarono il cd di “Back To Black” un miscuglio e un incrocio di R&B contemporaneo, jazz e soul, e non sapevo di certo che quello sarebbe stato il suo ultimo album. La Winehouse scriveva tutte le canzoni di “Frank”, suo primo lavoro del 2003, nel quale ci sono tracce di quel genere che tanto l’aveva fatta appassionare alla musica fin dall’adolescenza. Dichiarava in un’intervista che mai si sarebbe aspettata di parlare di amore nelle sue canzoni, cosa che invece si era verificata con suo grande stupore e, infatti , ascoltando “I heard love is blind” ci sembra di essere davanti a lei, in un intimo locale di musica jazz a Londra mentre fuori una fine pioggia cade e accompagna una ballata soffice e delicata. Amy sapeva essere profonda e penetrante e al tempo stesso leggera e disimpegnata, sempre con un tocco di nostalgia. “Tears dry on their own”, affermava fiera, “le mie lacrime si asciugano da sole” ma anche “Love is a losing game”, sosteneva in una ballad soul struggente e disillusa. La sua linea dell’eyeliner diventava sempre più marcata e scura col passare del tempo come a (di)mostrare quanto insieme al trucco anche la sua anima stesse diventando sempre più black. Le esibizioni di Amy erano spiazzanti ed esplosive agli inizi, per poi diventare man mano un grido di aiuto e disperazione per ciò che stava accadendo. Le sue dipendenze e i traumi famigliari incominciavano a manifestarsi anche sul suo corpo sempre più magro e sfinito, una scatola dentro la quale si custodivano gli ultimi respiri che a malapena il diaframma riusciva a sostenere. Il suo caratteristico ondeggiamento di anca iniziava ad irrigidirsi, la sua gestualità mostrava un forte disagio davanti a un pubblico che spesso, nelle ultime apparizioni, non sembrava intento a capire il suo malessere. Avevo 15 anni, tornavo a casa dopo una spensierata giornata in piscina e automaticamente accendevo la televisione: Amy non c’era più. Vedevo attraverso quello schermo le immagini di lei e la sua voce risuonava per tutta casa durante quel torrido tramonto. Prendevo ciò che mi rimaneva di lei, la sua vera eredità, le sue parole, il suo “Black, black…Black, black…” ripetuto svariate volte verso la fine di una sua celebre canzone, quasi volesse accompagnarci attraverso quel nero che tanto la circondava. La regina del soul bianco, così definita dagli esperti, ci salutava.
Dopo 10 anni quella di Amy Jade Winehouse è ancora una voce potente sul panorama internazionale, fatta di forza e tanto, tanto talento. Nel suo cuore, in passato organo dell’anima, si incrociavano bianco e nero, luci e ombre si sfumavano. A me piace ricordarla così: scalza come solitamente stava sul palco, mentre con una mano accarezza il suo “alveare” di capelli e con l’altra tiene il microfono ondeggiando seguendo il ritmo; nella stanza ci sono solo lei e la sua voce. E fuori ha smesso di piovere.
Caterina Roccato
Comments